I terremoti non uccidono, gli ingegneri sì
[Editoriale del numero di Marzo 2010 della rivista Ingegneri]
Non si è ancora placata l’onda di emozioni causata dal sisma
dell’Aquila ed eccoci scossi da un altro terribile e luttuoso evento,
il 12 gennaio un terremoto ha colpito Haiti provocando migliaia di
morti. Lontani nel tempo e nel luogo è più facile
rimanere lucidi e fare considerazioni di carattere tecnico che forse
possono interessare noi ingegneri.
A questo scopo è necessario fare un confronto tra tre terremoti
abbastanza recenti: a) il 12 gennaio 2010 un sisma di magnitudo 7
colpisce la zona di Port-au-Prince (Haiti) causando più di
112.000 morti e oltre 196.000 feriti (fonte
U.S. Geological Survey ); b) il 6 aprile 2009 un sisma di magnitudo 6,3
colpisce l’Italia centrale nelle zone limitrofe a L’Aquila causando
oltre 280 morti, più di 1.000 feriti e lasciando senza casa
più di 40.000 persone per la distruzione o il danneggiamento di
oltre 10.000 edifici (stessa fonte
); c) il 10 agosto 2009 un sisma di magnitudo 6,1 colpisce la costa sud
di Honshu in Giappone causando un morto, 123 feriti e danneggiando
5.192 edifici (stessa fonte).
Il linguaggio dei numeri è, come al solito, chiaro e, purtroppo
per noi, pieno di accuse anche verso il nostro operato. Queste accuse
sono state esposte in un interessante intervento
di un ingegnere, Eduardo Fierro, tra i primi ad accedere ad Haiti dopo
il disastro, che, alla luce di quanto visto sul posto denuncia: “This
was not an earthquake disaster”, “[This] was caused by people that
didn’t know how to use codes, that built things in bad shape. These
were the people that caused the tragedy” . La libera traduzione da
parte dello scrivente è: “questo disastro non è causato
dal terremoto, è causato dalle persone che non sanno come usare
i codici di calcolo e che costruiscono nel modo sbagliato. Sono le
persone che hanno causato questo disastro”. Da qui il titolo
provocatorio di questo editoriale. I principali punti toccai dall’ing.
Fierro sono: molti edifici erano costruiti con una massa oscillante
inopportuna, principalmente causata da solette piene e muri in blocchi
che appesantivano inutilmente la struttura e hanno causato grossi danni
una volta messi in vibrazione dall’accelerazione del sisma; le
connessioni tra le parti strutturali erano male progettate ed eseguite,
con punti dove addirittura mancavano le armature; l’assenza di queste
ultime anche nelle sezioni correnti; la presenza di pilastri in
calcestruzzo non armato o realizzate con calcestruzzo talmente povero
di cemento da non essere in grado di garantire una resistenza adeguata;
la cattiva scelta del terreno su cui gli edifici sono stati costruiti.
L’ing. Pierpaolo Cicchiello, autore di un interessante articolo sugli
effetti del sisma a L’Aquila pubblicato sul numero 6-7 dello scorso
anno, dopo una campagna di ispezioni su edifici danneggiati giunge a
conclusioni paragonabili, se rapportate alla diversa cultura del
costruire che c’è in Italia rispetto ad Haiti: molti danni alle
strutture, e quindi anche alle persone, potevano essere evitati con
accorgimenti progettuali e/o esecutivi. Ad esempio l’autore rilevava
che ingenti danni ai tamponamenti in laterizio erano rilevati in
edifici pluriplano privi di un vano scala in calcestruzzo armato
concepito come mensola incastrata al piede, che, irrigidendo l’intera
struttura, avrebbe limitato le deformazioni della stessa. Oppure che
generalmente la regolarità in pianta ed in elevazione degli
edifici fosse associata in genere a danni di modesta entità.
Il confronto proposto diventa allora un confronto anche tra culture
progettuali e costruttive, oltre che tra nazioni di differente
ricchezza. Non serve, infatti, ricordare agli addetti ai lavori che la
sicurezza strutturale è una questione di probabilità e di
soldi. Gli scienziati (ingegneri) definiscono le intensità delle
azioni sulle strutture, anche dei sismi, e la capacità
resistente di queste in termini probabilistici. Sono poi i governi che
stabiliscono i percentili, ossia il grado di sicurezza, da utilizzarsi
nella progettazione delle strutture, generalmente tale grado è
figlio della ricchezza di una nazione. Tanto più la nazione
è ricca tanto più i suoi governanti danno peso al valore
della vita umana e di conseguenza prescrivono per legge l'utilizzo di
percentili per le azioni e per le resistenze molto conservativi.
Inoltre, la tradizione costruttiva lega alcune tecnologie a luoghi o
stati particolari. Purtroppo non tutte le tecniche costruttive
presentano lo stesso grado di sicurezza strutturale, e questo è
tanto più vero quanto più le tradizioni costruttive sono
povere, come quelle dei paesi meno sviluppati.
Infine, più è alto il costo della manodopera maggiore
è la sicurezza strutturale. Era pratica comune, fino a qualche
decina di anni fa, anche nelle imprese di costruzione italiane,
"rubare" sui materiali da costruzione per diminuire i costi di
realizzazione. Come conseguenza di ciò noi ingegneri eravamo
sempre molto attenti a controllare che quanto progettato,
principalmente in termini di quantità di armatura da utilizzarsi
nei getti, fosse rispettato. Oggigiorno il prezzo dei materiali da
costruzione in Italia è, almeno per quelli più comuni,
irrisorio rispetto al costo del personale che li deve mettere in opera
per cui il "risparmio" di materiale che alcuni impresari autonomamente
facevano non vale più il rischio che gli stessi si prendono con
questa pratica poco etica. Questo, purtroppo, non è vero nei
paesi in via di sviluppo dove la manodopera costa poco o nulla e quindi
si è invogliati a "risparmiare" sui materiali.
Quali conclusioni trarre da questa analisi? Citando nuovamente l’ing.
Fierro “Better code and better design isn’t the answer", codici di
calcolo e progetti migliori non bastano. Serve una nuova cultura della
sicurezza strutturale. Nella speranza che i paesi più avanzati
si adoperino per rendere accessibile questa cultura anche ai più
arretrati nel settore e che questi ultimi si prodighino per
crescere.